Il segno del made in Italy

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Una caffettiera, una lampada, un paio di occhiali. Piccole opere d’arte nel nostro quotidiano, che portano in sé una storia che tanti non conoscono. Una storia che va raccontata. L’Italia ha una tradizione manifatturiera che a scuola non viene studiata, non se ne parla su giornali e TV, non scalda i cuori dell’opinione pubblica nostrana;  eppure nel mondo ci viene invidiata (se va bene) o copiata (se va male), rappresentando senza ombra di dubbio il nostro miglior biglietto da visita, con buona pace di pizza e mandolino. Lo chiamano “Made in Italy”, il terzo brand più famoso al mondo dopo Visa e Coca Cola e  con una crescita a ritmi del +14% ogni anno é pronto a diventare il primo. Ma in più, a differenza degli altri due, è un brand “collettivo”, fatto di tante piccole e grandi eccellenze. Cosa c’è dietro tutto questo? Quali le connessioni peculiari con la nostra storia? Quali le possibili prospettive? Sono le domande a cui vogliamo dare risposta in questa rubrica. A partire dall’ attività, spesso incasellata in pregiudizi senza logica, delle nostre imprese manifatturiere.

Un grande bar con angolo tondo all'interno della Fiera Internazionale di MIlano. Il soffitto è alto e gli elementi architettonici sono stile belle époque.

Perché l’industria italiana ha la peculiare capacità di trasformare singoli capolavori esclusivi in un oggetto per tutti. Dentro ogni casa. Rispetto alle principali industrie del pianeta, Giappone, Stati Uniti, Cina, l’Italia è stata la prima a voler riempire i suoi prodotti con la sua cultura: ed è attualmente forse l’unico soft power che ci è davvero riconosciuto nel mondo. Le nostre imprese sedimentano valori, abitudini, stili, comportamenti, pratiche e competenze che nel tempo hanno delineato una specifica identità che viene immediatamente individuata come italiana.

Per questo l’Italia è, anche grazie alla sua industria, una delle culle d’arte del pianeta. Al di là di tutti i caratteri folkloristici dentro i quali siamo rinchiusi, anche per un nostro deficit di autocoscienza e autoconoscenza. Siamo il Paese che ha inventato le note musicali, che ha dato una forma all’universo, ma siamo anche il Paese che per primo ha unito il sapere al saper fare: la prima università in Europa nasce a Bologna nel 1088 e il primo contratto di apprendistato a Carrara nel 1098. Siamo il Paese dell’umanesimo letterario di Dante, dell’umanesimo scientifico di Galilei, ma c’è anche l’umanesimo tecnologico di Leonardo e di tanti altri meno conosciuti artisti, apprendisti e artigiani che hanno lasciato un’impronta indelebile, per quanto latente, nel nostro “modo di fare”.

Abbiamo il cattivo vizio di specchiarci compiaciuti nel passato e non riusciamo a orientarlo affinché diventi bene comune, anche oggi, anche domani. Perché anche oggi, e dovremmo farlo domani, siamo il Paese che è riuscito a esportare l’arte del “bello e ben fatto” oltre ogni confine e immaginazione, tante volte partendo da piccoli e sconosciuti laboratori di provincia. Dobbiamo allora chiederci come ispirare gli eredi del “Made in Italy”, a partire dalle storie di imprenditori, designer, tecnici, inventori e in generale protagonisti dell’umanesimo tecnologico “4.0” di casa nostra. L’obiettivo è uno solo: riconoscere e trasmettere la grande bellezza dell’industria italiana, una bellezza “che balla”, che fabbrica valore, cultura, identità. Ed è di tutti: come un espresso, più buono se condiviso. Dunque, che questa rubrica abbia inizio. In fondo (la bellezza) non è solo un trucco. Sì, non è solo un trucco.