COSMOGONIA: SENZA INIZIO E SENZA FINE

scienza e filosofia - illustrazione digitale, scritta nera

In questo momento non riesco ad occuparmi se non di ciò che viene messo all’angolo o, se vogliamo, alle strette. D’altra parte lo spigolo non è il luogo del conflitto? E queste mie spigolature non cercano di cogliere i grumi di una trasformazione, che considero radicale, tra modo di produzione industriale e modo di produzione digitale? Quindi angoli, dai quali provare ad uscire, conflitti da superare. Questa trasformazione ci dovrebbe far pensare che, forse, quando cambia un modo di produzione cambia veramente tutto, che questo è accaduto da tempo, e che tutti noi facciamo finta di non sapere che ciò che “resiste” è sempre peggio di ciò che è già accaduto. Pensiamoci, per cortesia. 

 

Per quanto sembri improbabile, il primo scenario (cioè l’ordine del senso) che viene a cambiare è quello che gli antichi chiamavano cosmogonia e che noi abbiamo bellamente (sic! bellamente! ), idolatrando il bello, rimosso. Lo abbiamo rimosso perché la abbiamo tradotta in “letteratura” cioè in estetica del narrare, quando il narrare ha in sé l’etica stessa della relazione sociale e quindi anche della politica. In fondo la nostra estetica o retorica delle arti, nel nostro “Contemporaneo”, è sempre stata anestetica: ci ha illuso di vedere mentre stavamo diventando tutti ciechi. E così l’arte è diventava religione dell’arte. Tant’é!

 

Ecco allora il tema: il digitale non è questione di oggi, sta nella storia ma non dipende dalla storia, è metatemporale; riguarda nel contempo ciò che è stato, ciò che è, e ciò che sarà, senza pretendere di risolversi in una presunta universalità. Nel digitale non possiamo più chiederci che cosa “è” una cosa, ma come funziona e in che relazioni opera.

Qual’è la cosmogonia che emerge con il digitale (sapendo che il digitale non è in sé uno dei modi della evoluzione della tecnica)?

 

Eccoci al punto: la cosmogonia che in qualche modo ci appartiene (almeno quella indoeuropea, con radici o rizomi che dovremmo far risalire a molto, molto lontano) è costruita attorno ad uno schema: prima dell’inizio poteva esserci o il nulla o il caos (non uguali, ma simili). Quindi accade qualcosa che produce un ordine, magari non definitivo, da compiere, ma comunque un ordine. In gioco c’è l’evento, il chi lo fa accadere e il perché. E ovviamente ci siamo noi, i destinatari di tutto ciò.

 

E se questo orizzonte di senso, questa cosmogonia, fosse semplice presunzione? E se l’ordine fosse una delle variabili possibili e magari non quella essenziale del caos, del disordine, della differenza? E se l’elemento generativo non fosse il passaggio dal caos all’ordine, ma fosse la continua apertura alla differenza?  E se l’infinito fosse l’etereo ritorno del diverso e non dell’uguale? E se l’universo fosse discreto e non continuo, un gioco tra posizioni/relazioni, un immane automa cellulare? 

 

Per il digitale gli enti sono “stati di relazione” nel contempo materiali e immateriali, in-formazioni, cioè predisposti a prendere forma e quindi posizione. Gli enti operano (prendono forma) in un orizzonte quantico definito dal discreto e non dal continuo, dal finito e non dall’infinito. Nell’entaglement dove tutto si ingarbuglia vige la più semplice delle regole: a seconda della posizione puoi essere vero o falso, 0 o 1, 1 o 0. Nell’etaglement lo spazio e il tempo sono condizioni di possibilità e non dei trascendentali, e così di seguito.

Il digitale è fattualmente (pensa e opera, opera e pensa) in questa cosmogonia. 

Ciò di cui ci parla è la vita e il modo in cui la vita è vita è l’autopoiesi. 

Pensiamoci per cortesia.