Benessere, schiavitù e mercati

Una foto in bianco e nero mostra i piedi nudi di una persona poggiati sulla terra e immobilizzati da una catena

Nell’immaginario collettivo la schiavitù è qualcosa che si pensa legata al passato, a civiltà primitive prive di rispetto per la dignità umana. Invece ci sorprende amaramente la constatazione che il mondo non ha mai avuto tanti schiavi quanti ne ha oggi nell’epoca del benessere: più di 40 milioni nel 2017 secondo ActionAid. Sì buona parte del benessere del mondo sviluppato è legato allo sfruttamento brutale di uomini, donne e bambini che vivono in povertà estrema. Essi lavorano in molti settori, come agricoltura, artigianato, pesca, estrazioni minerarie, lavori domestici.

Secondo l’International Labour Organisation e Walk Free Foundation ogni anno 150 miliardi di dollari di profitti derivano dal lavoro di almeno 46 milioni di persone private della libertà in Paesi in via di sviluppo. Tre su quattro sono donne. Due terzi degli schiavi lavorano in Asia: India, Cina, Pakistan, Bangladesh, Uzbekistan, Corea del Nord, Cambogia, Afghanistan. Alcuni governi hanno fatto sforzi notevoli per combattere la schiavizzazione e la tratta di esseri umani, altri tollerano tutto o non hanno il controllo della situazione.

Tuttavia esistono strumenti che gli Stati sviluppati possono adoperare per combattere la schiavitù. Alcune organizzazioni internazionali collegate all’Onu hanno mappato le aree geografiche in cui la schiavitù viene praticata. Precludendo l’accesso ai mercati ai 25 Paesi più responsabili di tollerare il fenomeno, li si costringerebbe a intervenire. Due anni fa 85 Paesi si sono ufficialmente impegnati a collaborare solo con aziende assolutamente trasparenti dal punto di vista della forza lavoro di cui si servono. La Ue si orienta a far «fallire» il mercato della schiavitù escludendo i Paesi incriminati dai flussi finanziari. Per il momento l’obiettivo è di liberare 10.000 al giorno. Ovviamente gli embarghi non bastano, anzi potrebbero privare gli attuali schiavi di quel minimo che occorre per sopravvivere. Per tale ragione l’approccio deve essere complessivo e deve riuscire a responsabilizzare gli importatori che possono richiedere ai propri fornitori il rispetto dei diritti dei lavoratori, in modo che pressioni e persuasione riescano a contrastare l’avidità e la pura logica del guadagno.