Zelda e il lato dis-umano dell’appartenenza

produzione e digitale per la rubrica Aristotele digitale, cover del telefono con immagine di busto antico in marmo di uomo barbuto

Entrata in una stanza in casa di amici, durante una sontuosa festa, Zelda, moglie di Francis Scott Fitzgerald, trova un critico letterario che aveva da poco stroncato un romanzo del marito.

Il critico infastidito, con aria intensa, la prega di richiudere la porta: Mi scusi, sto pensando. Voglio stare solo”.  E immediatamente Zelda, con un sorriso feroce: “Lei non può pensare, lei è omogeneo”.

Questo l’aneddoto.

Proprio così, ha ragione Zelda: per pensare bisogna essere disomogenei, non corrispondere né a se stessi (alle proprie sensazioni, istinti, convinzioni, abitudini, preconcetti, etc.), né alle cose di questo mondo nella loro infinita varietà.

Il pensiero separa, distingue, opera nella differenza. Il pensiero mette continuamente in gioco l’esistente.

Perché siamo invece così attratti dall’omogeneità? Perché cerchiamo l’assimilazione (la homoiosis dei greci)Perché sogniamo di appartenere ad altro, al mondo, a Dio, all’Uno e persino al nulla? O forse il conoscere appartiene, per propria natura, all’omoiotico?

Ammesso che sia vero che noi siamo ciò che pensiamo, che senso ha negare la differenza? Se è vero ciò che ci dice Zelda, il pensiero per essere se stesso dovrebbe ricercare la differenza e non l’assimilazione e l’appartenenza. Se diciamo che gli umani sono tali proprio perché pensano, allora cercare assimilazione e appartenenza è semplicemente dis-umano. Tutte le vicende politiche fondate sull’etica dell’appartenenza hanno avuto, in modi diversi, esiti comunque dis-umani.

Certo, appartenere significa non fare differenze, non scegliere, non decidere, non essere responsabili o, semplicemente, non pensare. Certo tranquillizza sentirsi uguali, in forza della nostra disponibilità alla relazione con l’altro, uguali nell’appartenenza. Ma l’appartenenza esclude il diverso.

E se poi provassimo a pensare a ciò che Zelda nemmeno poteva immaginare, e cioè che viviamo in continui stati di relazione? (Per me, come saprà chi mi legge, essi sono la base per provare a comprendere il digitale). Va da sé allora che ognuno è in una singolare condizione di pensiero sempre diverso, data l’infinita molteplicità delle relazioni. Il pensiero sta quindi nella differenza delle relazioni che costituiscono delle “in-formazioni”, come accade nei bit che sono l’unità di misura della capacità delle relazioni di occupare spazi di possibilità.

Infatti, il digitale ci spinge a navigare (meglio, a fare surf) nella differenza e a considerare noi stessi non solo bit, ma un’infinita molteplicità di bit. Ci spinge, insomma, a misuraci con le nostre possibilità di essere liberi. Come sempre, nel pericolo.