Made in Italy e archeologia industriale

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Il Made in Italy e la sua eccellenza è soprattutto storia e tradizione, dalle botteghe medievali fino ai laboratori 4.0. Ma come si trasmette questa preesistenza? Solo nei manufatti, nei prodotti? O anche nelle stesse architetture delle nostre industrie?

In oriente, a rappresentarne la percezione ciclica, è un Uroboro, ossia un serpente, o un drago. Esso, secondo la simbologia esoterica, mordendosi la coda, forma un cerchio senza inizio né fine. Al contrario,in occidente, è un vettore ad indicare lo scorrere lineare, il tempo e la diversa concezione di esso è alla base del restauro modernamente inteso. In effetti, è l’arrivo dell’illuminismo e della rivoluzione copernicana, ad imporre un cambio di paradigma nell’idea stessa di preesistenza, non più riconosciuta come evento storico concluso, ma vivente in un eterno presente, senza soluzione di continuità.

Le tracce materiali del passato acquistano un nuovo ed importante significato: ciò che è passato non torna, ma la qualità riconosciuta è preservata “nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione al futuro”, come affermava Cesare Brandi nel 1963 ne “La teoria del restauro”.

È l’osservatore, dunque, ad attribuire un valore – di memoria o di uso – al manufatto industriale nel momento esatto in cui lo riconosce come “opera d’arte”. Questo è determinato dal contesto storico e culturale, oltre che da altri fattori, quali la luce, il sito in cui la struttura sorge, l’atmosfera. Questi fattori contribuiscono ad aumentare la forza suggestiva esercitata nei confronti di chi guarda. In questo quadro, nasce l’esigenza di individuare un equilibrio tra conservazione della memoria storica del sito e l’opportunità di adattarlo a nuove funzioni.

Rispondendo a questa esigenza, l’archeologia industriale si pone allora il fine di studiare, recuperare e valorizzare l’intero patrimonio a nostra disposizione. E questo attraverso interventi di restauro “volti a rimettere in efficienza un prodotto dell’attività umana”. Si tratta di un sfida lanciata all’architettura, chiamata ad intervenire su complessi apparentemente privi di potenzialità per riconvertirli in spazi attrezzati, utili alla collettività, da restituire al territorio.

Fotografia degli anni 50 di una fonderia con operai al lavoro
Fonderia Limone, Moncalieri, operai al lavoro, anni ’50 del secolo scorso>/em>

Interventi di questa natura sono numerosi in Italia: dai più noti, come la Fondazione Prada di OMA, ad interventi meno conosciuti, ma altrettanto interessanti, quali la Fonderia Teatrale Limone, nel torinese, o la Fondazione Pastificio Cerere a Roma. In virtù di approcci progettuali e concettuali differenti, essi permettono di comprendere le opportunità che siti industriali minori offrono alle nostre città.

(segue seconda parte)