Anatomia dell’Europa, un occhio al passato e uno agli auspici

Carta geografica raffigurante l'Europa con modifiche animali: il Regno unito ha forma e aspetto di un coniglio seduto sulle zampe posteriori, la Francia la testa di un lupo, la penisola scandinava una tigre
Raffigurazione didascalica dell'Europa di Arturo Giachino (1978)
Carta geografica raffigurante l'Europa con modifiche animali: il Regno unito ha forma e aspetto di un coniglio seduto sulle zampe posteriori, la Francia la testa di un lupo, la penisola scandinava una tigre
Raffigurazione didascalica dell’Europa di Arturo Giachino (1978)

GIOVANNI CARUSELLI – Gli Stati nazionali nascono in Europa in diverse epoche storiche, ma con motivazioni analoghe. Per i Paesi atlantici, all’inizio del secondo Millennio, fu determinante la volontà di superare l’anarchia feudale e assicurare il controllo del territorio a un’unica autorità monarchica. Divenne poi necessario uniformare leggi civili e penali, codici e monete, creare una burocrazia di pubblici ufficiali, un esercito efficiente. E altro ancora. Il percorso fu lungo da compiere, ma assicurò vantaggi significativi sotto il profilo giuridico, sociale, civile e economico, arricchendosi poi di pratiche democratiche. I Paesi dell’Europa centrale e orientale vi arrivarono molto più tardi, con risultati simili.

Ma gli Stati nazionali sorsero anche per l’esigenza di difendersi da eventuali aggressioni, contando stabilmente su risorse materiali, umane e economiche consistenti. In altre parole, si doveva far fronte a tutti i conflitti che il Vecchio continente non ci ha risparmiato nel corso di due millenni, fino alle due guerre mondiali.

 

L’idea di innescare un processo di unificazione continentale, sul modello degli Stati nazionali, sembrò la strada migliore per scongiurare ulteriori conflitti armati e addolcire quelli economici a partire dalla metà del XX secolo. Fu, però, necessario sottrarre potere agli Stati nazionali e trasferirlo a un’istituzione che facesse da centro decisionale e organizzativo del continente, tutelando la pratica democratica. Ecco dunque nascere l’unione fra Paesi Europei. Chi poteva guidare questa manovra? Evidentemente soggetti che già appartenevano ad una comunità sovranazionale, con interessi globali: i grandi gruppi bancari, assicurativi, industriali.

Purtroppo, economia e democrazia non hanno molto in comune e, dunque, le cose si sono complicate. È nato un Parlamento europeo che, diversamente da altri parlamenti o corpi altrimenti denominati, non hapotere legislativo. Quest’ultimo è appannaggio della Commissione europea che, rappresentando il potere esecutivo, concentra in sé due poteri. Povero Montesquieu! Il deficit di democrazia presente in Europa si aggrava, aggiungendo che i membri della Commissione non sono eletti dai popoli, ma nominati dai governi.

Sarebbe stato bello assistere alla nascita di un’Europa dei popoli, di certoideologia al fondo dell’Ue. Unione che si voleva diversa dal comunismo sovietico, pianificatore e dittatoriale, ma anche lontana dal liberismo americano, individualista, duramente non egualitario.

Non è andata così. Nella storia vincono i più forti, non i preveggenti. Tuttavia in un sistema ancora vagamente democratico, anche i vincitori alla fine devono fare i conti con i popoli. Infatti, quando si è capito che gli interessi dei creatori dell’Unione non corrispondevano a ciò che la gente comune si attendeva, sono cresciuti i partiti euroscettici, nazionalisti e antieuropeisti. Che non hanno sfondato, tranne che in un Paese d’importanza planetaria come la Gran Bretagna.

 

L’Europa è entrata in rotta di collisione col principio di autodeterminazione dei popoli, ma anche in una contraddizione irrisolvibile, pretendendo che i Paesi del continente competano liberamente e, allo stesso tempo, collaborino forzatamente. Ancora una volta, i numeri non si piegano alle chiacchiere. Le esportazioni di un Paese verso altri non devono creare squilibri macroeconomici, tanto che l’Ue ha fissato specifici indicatori numerici. I conti, però, spesso non tornano. Che fare? Tornare ai dazi doganali? No, è un’autostrada per le guerre. Pianificare a livello centrale i flussi produttivi e i finanziamenti? No, lo statalismo è malvisto da tutti e limita la libertà d’iniziativa economica. Convincere chi produce di più ad aiutare chi produce meno? Una strada possibile; ma chi ha l’autorità per farlo? Favorire gli spostamenti delle popolazioni, come si è spesso fatto negli Usa? Difficile da realizzarsi, nell’Europa delle Patrie. Eppure, non si vedono altre vie. In un mondo di grandi blocchi finanziari le piccole realtà statuali hanno poco spazio, poco potere, poca autonomia, zero sovranità. In un sistema economico globale, in cui per produrre occorrono investimenti in ricerca e impianti, il credito sta alla base di tutto. E più grandi si è, più credito si riscuote.

I ventotto Paesi che compongono l’Unione – includendo la Gran Bretagna che, fino a completamento della procedura ex art. 50 del TUE, è membro Ue – hanno diverse tradizioni e differenti mentalità. Considerare solo questo significa, però, non credere nel progresso, nelle mediazioni. Significa non avere fiducia negli arricchimenti reciproci e nella volontà di creare un forte organismo variegato al suo interno, ma che si riconosca nelle sue radici comuni. Invece, la sfida dell’Europa unita è la cittadinanza europea che deve scaturire dall’insieme delle esperienze storiche, e loro presa di coscienza, da parte dei Paesi aderenti. Il tutto messo a profitto.

GIOVANNI CARUSELLI 216 Articoli
Collaboratore di case editrici italiane (Einaudi, Rizzoli, Vallardi, Diakronia, etc.) per testi di storia e filosofia. Autore di saggi, "Il Pci da Gramsci a Occhetto", "Cento anni di storia lombarda" (con altri), "La memoria e le notizie" (con altri).